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È difficile delineare una mappatura esaustiva dell’arte dell’Africa subsahariana. In primo luogo, perché la maggior parte delle opere non ci è giunta intatta a causa della fragilità dei materiali impiegati – legno e terra. Secondariamente, perché le ricerche archeologiche in questo campo sono ancora troppo rare. I reperti in nostro possesso, manufatti realizzati perlopiù negli ultimi centocinquanta anni ma che potrebbero risalire a migliaia di anni fa, ci hanno permesso comunque di collegare una moltitudine di stili a specifiche etnie e a macroaree spazio-temporali.
Per comprendere appieno il significato di ciascuna opera, dobbiamo sforzarci di riposizionarla nelle mani del suo artefice e contestualizzarla nel crogiolo di credenze e superstizioni che ne hanno accompagnato la realizzazione. Le differenze culturali non hanno impedito il diffondersi di tratti comuni a tutte le esperienze artistiche africane. Un tema ricorrente è la presenza della famiglia e delle divinità, e il rapporto che tra loro intercorre, privilegiato nel momento del sacrificio rituale. Le maschere impiegate durante i riti di iniziazione svolgevano il duplice ruolo di garanti della regolarità della vita e delle relazioni, di cui tramandavano i capisaldi, nonché di carnefici nei confronti di chi trasgrediva. Una particolare attenzione era rivolta, inoltre, alla fertilità delle donne e dei campi e le paure venivano esorcizzate tramite l’espressione artistica. All’interno delle società prive di scrittura, l’arte si fa supporto e veicolo fondamentale della tradizione orale, mentre un aspetto che probabilmente mancava nelle intenzioni degli artisti africani era quello puramente estetico.
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